DEBORA PELLEGRINI : LE DONNE DI CONTRADA RACCONTANO …

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Debora Pellegrini

Le donne di Contrada raccontano …

A cura di Virginia Francalanci e Cristiana Parisi 

Come ci si approccia alla contrada, quando il palio è ancora una novità? Come inizia l’amore per la Contrada, quando questa deve finire ancora di formarsi?  È la prima cosa di cui ci ha parlato Debora Pellegrini, una presenza costante e conosciuta da tutti alla Torre. Ci ha raccontato di come lei fosse ancora una bambina quando è entrata in questo mondo.  E i suoi inizi all’interno della contrada ce li racconta con un aneddoto:

“Una sera arrivammo in piazza, c’erano i Cei e un gruppo di persone più grandi. Ci chiesero se volevamo andare tutti a Fucecchio a sfilare, ci servivano un paio di jeans, una maglietta bianca e lo stemmino.  Noi non avevamo nessun vestito “di contrada”, ognuno di noi aveva appunto la fruit bianca e i jeans, visto che i colori assegnati erano bianco e celeste. La Da-Gi, di Danilo, babbo di Giuliano Frediani, aveva una ditta che si chiamava appunto Da-Gi e che aveva uno stemma con una torre. Decidemmo di prendere lo stemma, ritagliarlo e metterlo sulle magliette, visto che era un adesivo.

Le bandiere che avevamo erano fatte con le canne di bambù della sala da ballo ed erano state cucite dalla mamma di Franco e Loriano Cei!” Ingresso da giovanissima, e presto arrivano anche le responsabilità: Debora si è sempre data da fare e si è sempre resa disponibile, tanto che a 23 anni si è ritrovata a fare la Presidente(ssa).    

A quei tempi le persone in contrada si contavano sulle dita di una mano e, durante una riunione in cui erano presenti “i soliti 5 gatti” ed era necessario distribuire le cariche richieste dal Comune, Debora dice di sì a questa sfida. Ma ci tiene a puntualizzare: “Non sapevo cosa mi aspettasse né cosa dovevo fare. In realtà non c’era qualcosa di preciso da fare, anche se eravamo pochi eravamo un gruppo coeso e quindi le cariche alla fine rimanevano molto sulla carta, tutti facevano tutto”. È bello ascoltarla parlare di quel periodo, in cui ci descrive una contrada in qualche modo diversa da quella che viviamo oggi: “In quegli anni (primi anni ‘90) è venuta fuori la contrada che volevo, ci siamo uniti tanto anche se ovviamente, come sempre, c’erano comunque dei conflitti. Ognuno faceva tutto, da servire, a organizzare i giochi per bambini, a pulire, a fare la sfilata e cercavamo di attrare persone intorno alla contrada, ma non solo per il palio, più per viverla come comunità.

Abbiamo organizzato un sacco di eventi, come il torneo di calcio balilla   , serate con Radio4, le cene in piazza, le varie feste, tra cui il famoso evento “Torre in festa”, in cui siamo riusciti a coinvolgere tutta la Torre ed è stata una grande soddisfazione, anche perchè era nata dal niente. Tre serate con i tornei e i giochi che coinvolgevano tutte le contrade di Fucecchio, che ci mandavano le squadre per partecipare. Alla fine a organizzarla eravamo una decina di persone! Parte del ricavato servì a mettere a posto il circolo, che era anche la nostra sede. Non c’erano limiti in quel momento lì, era benvenuto chiunque facesse qualcosa di buono”. Ovviamente, tra un aneddoto e l’altro, la domanda viene spontanea:

“cos’è per te la contrada?”.  Questa dovrebbe essere la contrada: un posto dove stai bene e c’è un progetto comune. Deve essere un ambiente collaborativo, perché se c’è collaborazione funziona e va bene e stai bene, quando questa manca diventa tutto pesante. La contrada dovrebbe essere un ambiente inclusivo e aperto. Purtroppo può capitare, quando c’è un gruppo coeso, che si chiuda. Probabilmente non succede neanche volontariamente, magari si potrebbe farlo notare in quel caso, perché all’interno non viene percepito. In ogni caso, la base per stare in contrada è starci bene: se deve essere un posto dove ci si sente sacrificati o pressati, c’è qualcosa che non sta funzionando. La contrada a volte sembra essere o dovere o fatica e io invece non sposo questa idea della contrada come sacrificio. Deve essere piacere, io devo venire nella misura in cui mi fa piacere, non scarifico qualcosa per la contrada, ma vengo perché è un piacere per me. Si dovrebbe trovare la propria dimensione di piacere nella contrada, sennò succede così: ci sono anni in cui ti sdai e poi abbandoni, perché a un certo punto diventa tutto troppo e sei stanco. Non si deve arrivare a quello e per non arrivarci ci vuole collaborazione, la dimensione del piacere giusto di ognuno”.   

E ciò che Debora ha sofferto dei suoi anni in contrada è proprio la mancanza di continuità, che è tipica della Torre, una serie di rotture tra “vecchio” e “nuovo”, situazioni che a volte portano ad allontanarsi. Ci racconta che comunque, negli anni in cui è stata più lontana dalla contrada, le è mancata tantissimo, “alla fine è vero che non importa chi c’è, ma importa starci bene, e succede che manca troppo e uno si adatta ai nuovi equilibri. Quando in Contrada ci nasci l’attaccamento rimane, la contrada ti rimane dentro. Il palio ha fatto parte della mia vita, non tanto la corsa, ma la contrada in sé e ovviamente la sfilata”.     

E parlando di palio e di corsa, come non chiederle qualcosa sulla vittoria. “È stato quello che aspettavamo da sempre e pensavamo non sarebbe mai successo. “La gioia più grande per me è stata fare il giro con le macchine  con persone che alla torre non ci vivono più ma che si sono sentite di venire, ci si guardava e si rideva, ci si sentiva tutti appartenenti e provenienti dallo stesso posto e con lo stesso fine”. Le cose da raccontare e di cui parlare sono tante e ascoltare Debora aiuta a capire meglio quante sfaccettature abbia la vita di contrada. Ci dice che per lei “l’esperienza con la contrada è anche un’esperienza di vita, mi ha permesso di fare cose ed esperienze che altrimenti non avrei fatto e mi ha fatto superare quelli che credevo ostacoli enormi. Certo, con difficoltà, ma sono stati superati, e sicuramente l’esperienza che mi ha dato la contrada se non ci fosse stata adesso mi mancherebbe. Della contrada in toto ho solo da ringraziare di averla avuta anche come riferimento”. Ovviamente non ci siamo fatte mancare la domanda finale: “cosa diresti a chi è adesso in contrada?” “Apertura, perché se siamo aperti si attirano le persone, se ci si chiude non si attira nessuno. Chi arriva deve sentirsi benvenuto, tutti devono avere la possibilità di essere parte di una contrada se vogliono. Se decido di passare da lì e fermarmi mi dovrei sentire bene accolta e questo ci riporta al discorso del piacere: tutto ha una certa misura per tutti e con quella misura tutti si fanno grandi cose”.    

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